Lo stress dimenticato: breve inchiesta attraverso le carenze della valutazione del rischio stress lavoro correlato

Parlare del rischio stress è come parlare di un illustre sconosciuto. Tutti lo conoscono, ne discutono, tutti concordano sulla sua onnipresenza nel mondo del lavoro. Ma poi molte aziende evitano la valutazione o ne sfiorano soltanto i rischi con contromisure all’acqua di rose, convinti che in realtà lo stress sia qualcosa di altri, sia un “clima aziendale” da cambiare solo con una finestra aperta.

Il problema è che lo stress correlato all’attività lavorativo è un reale pericolo per i lavoratori e per l’azienda.

Per l’azienda è come un tarlo che rode da dentro. Non è solo la causa di assenteismo/malattia, è anche un forte freno alla produttività, specialmente se gonfiata da una faticosa rincorsa alla produttività dei competitors. Un freno che, senza prevenzione, prima o poi si farà sentire e non sarà più disinseribile senza grandi e dolorosi cambiamenti.

E per il lavoratore il rischio stress è un cattivo compagno che – in condizioni snervanti dal punto di vista organizzativo e/o relazionale – danneggia il fisico e la psiche. A volte lo stress si insinua nel lavoratore come una sconfitta da nascondere, una battaglia persa.

In un’azienda in cui la valutazione non c’è o le misure di prevenzione sono solo apparenti, questo tarlo si rinforza diffondendosi sempre più. Diventa sempre più un modus vivendi. E quando una malattia non può più essere riconosciuta perché vissuta come normalità, non c’è più niente da fare.

Proprio per alzare l’attenzione sulla falsa prevenzione dello stress nel mondo del lavoro, ho deciso di dedicare un po’ di spazio di questo blog a questo tema. Magari parlando di valutazioni da fare o fatte male, di indagini della magistratura, delle conseguenze reali su lavoratori e aziende e delle ricerche che hanno messo in questi anni, dopo che il D.Lgs. 81/2008 ha aumentato l’attenzione sui rischi psicosociali nel mondo del lavoro, il “dito nella piaga”.

La prima ricerca di cui vorrei parlare è un’indagine condotta dall’Associazione Bruno Trentin in stretta collaborazione con le organizzazioni sindacali e promossa dalla CGIL Nazionale e dalla FIOM CGIL – con il finanziamento del FAPI (Fondo Formazione Piccole e Medie Imprese) – per comprendere come è affrontato il rischio stress lavoro correlato nelle aziende metalmeccaniche. I risultati dell’indagine, raccolti nel volume “Il rischio stress lavoro-correlato nel settore metalmeccanico” sono stati presentati il 31 marzo 2015 a Roma durante la giornata di studio e confronto dal titolo “ Rischi psicosociali in Italia ed in Europa: quali percorsi per la tutela dei lavoratori?”.

Per comprendere i risultati di questa interessante ricerca e avere un quadro realistico di come si affronta lo stress lavorativo nelle aziende del comparto metalmeccanico, ho realizzato un intervista – pubblicata sul quotidiano online PuntoSicuro del 9 giugno 2015 – al ricercatore Daniele Di Nunzio (Associazione Bruno Trentin – IRES – Istituto di Ricerche Economiche e Sociali– Osservatorio Salute e Sicurezza).

Un’intervista che vi invito a leggere…

Buona lettura.

 

Tiziano Menduto

 

 


 

 

(…)

 

Partiamo dalla storia di questa ricerca sul rischio stress lavoro-correlato nel settore metalmeccanico. Da quali esigenze e problematiche è nata? Chi ha coinvolto?

Daniele Di Nunzio: Negli ultimi dieci anni le leggi e gli accordi tra le parti sociali hanno rafforzato gli obblighi per la tutela della salute dei lavoratori dando sempre maggiore importanza all’integrità della salute psico-fisica e, di conseguenza, alla prevenzione dei rischi psicosociali. In particolare, il decreto legislativo 81/2008 impone a tutte le imprese l’obbligo di effettuare la valutazione del rischio stress correlato al lavoro, secondo quanto previsto dalle indicazioni della Commissione consultiva permanente emanate alla fine del 2010.

L’Associazione Bruno Trentin, in collaborazione con la CGIL nazionale e la FIOM CGIL, con un finanziamento del Fapi, ha condotto una ricerca per capire lo stato della valutazione del rischio stress: se è effettuata, come è effettuata, quali sono i risultati.

La ricerca è stata condotta nelle aziende metalmeccaniche, ascoltando il parere dei Rappresentanti dei Lavoratori per Sicurezza, attraverso un questionario.

Perché ha riguardato in particolare il settore metalmeccanico? Quanto è presente in questo settore il rischio stress lavoro correlato?

DDN: Nel settore industriale i rischi per la salute dei lavoratori sono molti. I  rischi più noti sono quelli di tipo fisico, come i danni muscolo-scheletrici, o di tipo chimico, così come il rischio di subire un incidente.  Però esistono anche dei rischi che sono propri dell’organizzazione del lavoro, molto diffusi, meno visibili, rispetto ai quali l’attenzione è minore. I fattori che mettono una forte pressione sul lavoratore sono tanti, come i ritmi serrati, la catena di montaggio, il lavoro ripetitivo, i turni e la tendenza alla produzione continua. Questi fattori possono comportare dei danni alla salute psicologica e anche un maggiore rischio di incidenti, quindi mettono in pericolo la salute del singolo ma anche quella di una comunità di lavoratori e lavoratrici.

Veniamo ai risultati partendo innanzitutto dai ritardi delle aziende nel valutare i rischi stress lavoro correlati. Qual è la situazione nel comparto metalmeccanico? In quante aziende la valutazione è stata effettivamente fatta?

DDN: La ricerca mostra l’esistenza di numerose difficoltà per la valutazione del rischio stress lavoro-correlato. Le criticità maggiori e più diffuse sono: il fatto che la valutazione non viene effettuata, le mancanze nell’applicazione delle norme, lo scarso coinvolgimento degli Rls, la scarsa efficacia nell’individuazione dei rischi, la scarsa capacità di programmare delle adeguate misure di intervento per migliorare le condizioni di lavoro.

Dei 185 casi analizzati, solo in 59 la valutazione è stata conclusa al momento della rilevazione. Dall’analisi di questi 59 casi sappiamo che solo in 8 aziende sono stati evidenziati dei rischi “medi” o “alti” dall’analisi degli eventi sentinella (ossia fattori quali l’indice infortunistico o l’assenza per malattia). In 22 casi i fattori di contesto o contenuto (come l’ambiente di lavoro, l’orario e i turni) hanno indicato un rischio “medio” o “alto”. Solo in 14 casi è stata indicata la necessità di misure di intervento per contrastare il rischio stress lavoro-correlato e migliorare le condizioni di lavoro.

Dunque, in un contesto con così tanti pericoli, come quello metalmeccanico, nella maggioranza dei casi la valutazione dei rischi non è riuscita a fare emergere i problemi reali per la salute psicologica dei lavoratori. E’ dunque utile fermarsi a riflettere su qual è il funzionamento del sistema di gestione dei rischi e della valutazione dei rischi, per comprenderne le criticità e migliorarne l’efficacia.

Se vogliamo approfondire l’analisi, i dati della ricerca ci mostrano che a tre anni dall’emanazione delle indicazioni della Commissione Consultiva ancora un’azienda su tre non ha iniziato a valutare il rischio stress lavoro-correlato secondo quanto previsto dalla nuova regolamentazione. Se consideriamo un periodo di tempo più lungo, un’azienda su cinque non ha mai svolto la valutazione del rischio stress lavoro-correlato a partire almeno dal 2008, per cui numerosi lavoratori sono stati esclusi dalla prevenzione obbligatoria su questo rischio.

Che differenza c’è nei dati in relazione alla grandezza delle aziende?

DDN: Nelle piccole aziende sono molte le difficoltà per la tutela della salute dei lavoratori, tra cui: le difficoltà economiche che ostacolano la messa in atto di interventi preventivi e migliorativi delle condizioni di lavoro, la minore presenza di figure specializzate sui temi della salute e sicurezza, il fatto che le aziende più piccole lavorano più spesso in appalto o comunque sono più facilmente in balia del mercato e delle commesse esterne, una minore opportunità di  programmazione a lungo termine del lavoro.

Però dalla ricerca emerge un dato interessante: per quanto riguarda la valutazione specifica del rischio stress lavoro-correlato, il coinvolgimento degli Rls è avvenuto in misura maggiore nelle aziende più piccole (con meno di 50 addetti). In ipotesi, nei contesti più piccoli gli Rls hanno un rapporto più diretto con la dirigenza e possono assumere un ruolo più operativo mentre nei contesti più grandi si impone uno stile più tecnocratico e formale che ostacola la partecipazione.

La ricerca ha coinvolto in particolare i Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza delle varie aziende… Qual è il livello di coinvolgimento riscontrato, laddove la valutazione del rischio è stata fatta? In che percentuale sono stati formati sul rischio stress?

DDN: Il sindacato ha un ruolo fondamentale nel sistema di gestione dei rischi. La ricerca mostra che quando gli Rls sono coinvolti nella gestione del rischio stress emergono meglio i problemi e le soluzioni. È scarsa anche l’attenzione verso la percezione “soggettiva” dei lavoratori e questo dimostra come ci sia ancora troppa confusione rispetto ai temi della salute psicologica. I lavoratori dovrebbero essere i primi a essere coinvolti nei percorsi di tutela delle loro condizioni di salute, visto che l’analisi dei rischi legati allo stress non può certo prescindere dall’ascolto del loro punto di vista. Certamente i fattori oggettivi sono importanti ma non possono riuscire a individuare tutti i problemi presenti per la salute psicologica, perché questa non può essere ridotta a un calcolo matematico, perché l’articolazione dei fattori di rischio è complessa e perché, di certo, il primo fattore di benessere è quello di sentirsi partecipi della vita aziendale.

Riguardo al ruolo degli Rls, la ricerca mostra che il rispetto formale della normativa ha portato le aziende a osservare alcuni obblighi minimi, come la visione del Dvr per gli Rls e la loro formazione, ma nella sostanza non ha favorito un ruolo attivo e partecipativo degli Rls.

L’analisi evidenzia alcuni problemi: un Rls su quattro non è stato consultato su come impostare la valutazione preliminare; nella metà dei casi gli Rls non sono stati coinvolti o lo sono stati in maniera marginale; si afferma il ricorso a consulenze esterne private, mentre il coinvolgimento di  esperti delle istituzioni pubbliche e di quelli delle organizzazioni sindacali e datoriali è scarsissimo se non nullo.

Da cosa nasce la carenza di coinvolgimento degli RLS nelle valutazioni dei rischi? Perché in Italia è ancora carente l’idea che la partecipazione di tutti alla cultura della sicurezza possa essere un elemento vincente  per l’efficacia delle attività di prevenzione?

DDN: Negli ultimi anni in Italia, non solo nel settore metalmeccanico, la competizione delle aziende è stata fondata soprattutto sull’abbassamento del costo del lavoro, con una scarsa attenzione ai fattori propri dell’innovazione e della valorizzazione del personale. Così, si è affermata una spirale di dequalificazione dei processi produttivi che si traduce in una minore competitività sui mercati globali e, anche, in peggiori condizioni per i lavoratori. In molte imprese italiane manca la capacità di puntare davvero sulla qualità della produzione, di valorizzare ogni singolo aspetto del ciclo produttivo, a partire dall’innovazione dei processi, dal lavoro quotidiano delle persone, dalla facoltà di creare un clima cooperativo. Ad esempio, la ricerca mostra che Il coinvolgimento degli Rls è avvenuto nella maggior parte dei casi nei contesti aziendali con uno stile di gestione del rischio più collaborativo, mentre laddove lo stile è più conflittuale ci sono degli ostacoli al coinvolgimento degli Rls. La cultura della sicurezza è indissolubilmente legata al valore che si da alle persone e al loro lavoro, così come è in stretto rapporto alla democrazia interna di un contesto aziendale.

Qual è il giudizio generale che è stato riscontrato sulla presenza e sulla gestione del rischio stress nelle aziende metalmeccaniche?

DDN: Solo il 30,8% degli Rls ritiene che la valutazione abbia fatto emergere i problemi principali legati al rischio stress in azienda e addirittura solo il 9% di loro ritiene che siano state affrontate delle problematiche ritenute importanti per la valutazione dello stress.

Non stupisce dunque che la maggioranza degli Rls (il 61,2%) non sia soddisfatta di come è stata condotta la valutazione nelle aziende e la valutazione del rischio sarebbe stata più efficace nell’individuare le problematiche realmente presenti nei luoghi di lavoro se il coinvolgimento degli Rls e dei lavoratori fosse stato maggiore, al contrario di quanto è accaduto.

Quali sono le possibili soluzioni per arrivare ad un’adeguata valutazione e gestione del rischio?

DDN: La soluzione migliore è certamente quella di rispettare le leggi e, anche, lo spirito che è alla base delle normative, partendo da quanto previsto dagli orientamenti europei in materia che prevedono la creazioni di sistemi di gestione del rischio fondati sulla cooperazione tra tutti gli attori. Per questo, è molto utile la creazioni di gruppi specifici di lavoro su questi temi a livello aziendale, capaci di favorire il coinvolgimento e la partecipazione degli Rls, dei lavoratori e anche dei medici, delle Asl, di esperti. In particolare, dalla ricerca emerge che le aziende in cui i fattori di contenuto e di contesto hanno portato all’individuazione di un rischio «medio» o «alto» sono quelle in cui c’è stato il coinvolgimento maggiore dell’RLS. Allo stesso modo la necessità del ricorso a misure correttive o interventi migliorativi emerge con maggiore frequenza nelle in cui è stata indagata la percezione dei lavoratori e l’RLS è stato coinvolto nel processo di valutazione.

Al di là delle scelte aziendali, tra gli RLS c’è sufficiente attenzione al tema dello stress e dei rischio psicosociali?

DDN: Negli ultimi anni l’attenzione a questi temi è andata crescendo. Lo stress correlato al lavoro è un problema che permea ogni aspetto della vita aziendale, di conseguenza per gli Rls occuparsi di questi temi significa occuparsi dell’organizzazione complessiva e delle condizioni generali del lavoro. Sicuramente i problemi per la salute psicologica nelle aziende sono meno considerati rispetto ad altri, però questo non significa che non siano importanti per i lavoratori che, ogni giorno, si confrontano con i problemi dovuti ai ritmi, agli orari, al carico di lavoro e di responsabilità che possono avere. E gli Rls dunque si confrontano necessariamente con questi problemi che riguardano la vita quotidiana dei lavoratori e lo fanno con una consapevolezza sempre crescente che deve essere alimentata con una formazione continua. Certamente sono problemi complessi e per questo gli Rls necessitano di avere degli strumenti adeguati, in termini di formazione ma anche di supporto da parte dell’azienda e, anche, delle organizzazioni sindacali, che devono riuscire a valorizzare il loro ruolo e a coordinare il loro lavoro in maniera sempre più efficace.

Quali sono in definitiva le principali conclusioni a cui arriva la ricerca?

DDN: Secondo i risultati della nostra ricerca, successivamente all’entrata in vigore delle indicazioni della Commissione Consultiva permanente è aumentato il numero di aziende che hanno svolto la valutazione del rischio stress lavoro-correlato, per cui le indicazioni potrebbero avere contribuito ad aumentare l’attenzione a questi rischi. Quindi qualche passo in avanti è stato fatto ma la strada è ancora lunga. È necessario migliorare dal punto di vista normativo gli obblighi per la valutazione del rischio ma, soprattutto, bisogna superare qualsiasi approccio formale e non sostanziale a questi problemi, evitando anche il rischio di una burocratizzazione della valutazione che si ferma alla sola misurazione del dato oggettivo. In generale, è necessario favorire l’affermazione di una cultura della sicurezza fondata sulla cooperazione, sul dialogo, sulla democrazia aziendale, valorizzando il ruolo degli Rls e la partecipazione dei lavoratori, che sono i veri protagonisti di questi processi e devono avere un ruolo attivo e propositivo.

 

Articolo e intervista a cura di Tiziano Menduto

 

Link all’articolo originale di PuntoSicuro “Rischio stress: i ritardi e le carenze delle valutazioni dei rischi”

Indagine competenze Stato/Regioni 6: per le ispezioni è meglio un’Agenzia Unica?

La modifica al Titolo V della seconda parte della Costituzione – all’interno di un disegno di legge costituzionale più complessivo finalizzato al superamento del bicameralismo perfetto – continua il suo lungo iter dopo la recente approvazione alla Camera (seduta del 10 marzo 2015). Ora la riforma dovrà tornare a Palazzo Madama per l’iter della seconda lettura e approvazione. Con questo blog di riflessione cerco di rispondere ad alcune domande sull’utilità e sulle conseguenze dell’accentramento o decentramento delle competenze in materia di salute e sicurezza. E lo vorrei fare attraverso una raccolta di materiali e di pareri, con particolare riferimento a mie interviste e articoli pubblicati sul quotidiano online, in materia di sicurezza sul lavoro, PuntoSicuro.

 

Della legge delega per la riforma del lavoro, ormai chiamata da tutti “Jobs Act”, si parla in Italia da mesi. Di questa legge, già approvata ed entrata in vigore, i media hanno sfornato tutti i possibili dettagli in materia di reintegro, licenziamenti, ammortizzatori, nuovi contratti. Innumerevoli talk show hanno cercato di chiarire se questa legge servirà o meno a diminuire la disoccupazione in Italia, se l’azzardo verso le “tutele crescenti” non sia un modo di nascondere la riduzione delle “tutele presenti”. I grandi giornali cartacei hanno ricoperto le proprie prime pagine di titoli sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, sull’opportunità osteggiata, discussa o esaltata di cambiare le regole in materia di licenziamenti.

Peccato che invece pochi media si sianoinvece soffermati su un aspetto del “Jobs Act” meno conosciuto e per questo più insidioso: i cambiamenti in materia di tutela della salute e sicurezza dei lavoratori con particolare riferimento alle “Deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell’attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro”.

Quali cambiamenti?

Innanzitutto cambiamenti dipendenti dalla delega in materia di sicurezza, delega per modifiche che tengano conto dei criteri della semplificazione e razionalizzazione.

Ma una ulteriore delega, ancor più sottaciuta dai media e sempre ispirata dagli obiettivi di semplificazione e razionalizzazione, riguarda anche il compito di istituire una sorta di “Agenzia unica delle ispezioni del lavoro”.

Questo è uno stralcio del comma 7 dell’articolo 1 del Jobs Act approvato:

7. Allo scopo di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione, nonché di riordinare i contratti di lavoro vigenti per renderli maggiormente coerenti con le attuali esigenze del contesto occupazionale e produttivo e di rendere più efficiente l’attività ispettiva, il Governo è delegato ad adottare, su proposta del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi, di cui uno recante un testo organico semplificato delle discipline delle tipologie contrattuali e dei rapporti di lavoro, nel rispetto dei seguenti princìpi e criteri direttivi, in coerenza con la regolazione dell’Unione europea e le convenzioni internazionali:

(…)

i) razionalizzazione e semplificazione dell’attività ispettiva, attraverso misure di coordinamento ovvero attraverso l’istituzione, ai sensi dell’articolo 8 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica e con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente, di una Agenzia unica per le ispezioni del lavoro, tramite l’integrazione in un’unica struttura dei servizi ispettivi del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, dell’INPS e dell’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (INAIL), prevedendo strumenti e forme di coordinamento con i servizi ispettivi delle aziende sanitarie locali e delle agenzie regionali per la protezione ambientale.

 

Per cogliere la connessione tra Jobs Act e riforma del titolo V della Costituzione, tra l’Agenzia Unica delle Ispezioni e il passaggio delle competenze allo Stato in materia di sicurezza, riprendiamo uno stralcio di un contributo, pubblicato con il titolo “Vigilanza e competenze: l’Agenzia unica delle ispezioni del lavoro” su PuntoSicuro del 15 gennaio 2015, di Massimo Peca, Ispettore tecnico del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, componente del Coordinamento Spontaneo degli Ispettori del Ministero (CSI-MLPS).

Per comprendere infine il percorso a ostacoli del futuro decreto attuativo relativo all’Agenzia Unica, riportiamo a seguire, infine, lo stralcio di una mia intervista a Sebastiano Calleri, il Responsabile Salute e Sicurezza della Confederazione Generale Italiana del Lavoro (Cgil) nazionale. Intervista pubblicata su PuntoSicuro il 5 marzo 2015 con il titolo “Jobs Act: le modifiche in materia di ispezioni e formazione”.

Buona lettura.

Tiziano Menduto


 

Vigilanza e competenze: l’Agenzia unica delle ispezioni del lavoro

Lo “stato dell’arte” dell’Agenzia unica delle ispezioni del lavoro” in relazione alle probabili competenze sulla salute e sicurezza dei lavoratori. A cura di Massimo Peca.

(…)

Dalla lettura dei testi anzidetti (il comma 7 dell’articolo 1 del Jobs Act, ndr), appare evidente che, mentre nel caso in cui venisse realizzata l’Agenzia, questa potrebbe interessare solo le funzioni ispettive dell’INPS e dell’INAIL, per quanto riguarda le attività ispettive descritte delle ASL e ARPA (circa 250 in tutto), la legge delega (e di conseguenza il decreto legislativo che ne deriverebbe) prevede solo delle “forme di coordinamento” e quindi tali funzioni non potrebbero essere ricomprese tra i compiti dell’agenzia, se verrà realizzata. Ciò a causa del vincolo posto dal Parlamento al Governo.

Lo stesso Governo Renzi ha presentato l’8 aprile 2014 al Senato, il disegno di legge costituzionale S1429 per la riforma del titolo V della Costituzione. Per quanto d’interesse in questa trattazione, la modifica dell’articolo 117 della Costituzione predisposta dal Governo prevedeva la seguente formulazione: “Lo Stato ha legislazione esclusiva nelle seguenti materie e funzioni: … norme generali per la tutela … e sicurezza del lavoro”. Il testo licenziato dal Senato ed ora in discussione alla Camera (C2613) è stato privato della parola “funzioni”, sebbene sia stato emendato nelle varie commissioni affari costituzionali.

Seppure il percorso della riforma costituzionale dell’articolo 117 non si sia ancora concluso, è importante rilevare dalla lettura del testo originario del Governo, che l’intenzione dello stesso parrebbe essere quella di creare i presupposti normativi costituzionali per riportare alla competenza esclusiva dello Stato non solo l’importantissima ed esclusiva potestà legislativa relativa alla tutela della salute e sicurezza dei lavoratori, ma anche quella delle “funzioni” ad essa connessa, cioè l’attività di vigilanza a parere di chi scrive. Ben più pregnante, impegnativa e profondamente riformatrice dell’apparato pubblico ad essa destinato: principalmente ASL e ARPA. Le date di trasmissione dei due disegni di legge sono sintomatiche.

Orbene, seppure la riforma dell’articolo 117 della Costituzione tornasse nella sua precedente formulazione, cioè ricomprendendo anche le “funzioni”, queste sarebbero impossibili da esercitare se non previa modifica sia della legge delega appena approvata (183/2014) che del conseguente decreto legislativo, perché esulerebbero dai vincoli “imposti” dal Parlamento. O meglio, sarebbe più opportuno parlare di vincoli “votati” dal Parlamento.

Sarebbe importante che l’obiettivo della riforma legislativa in atto fosse quello di ricondurre alla gestione unitaria dell’Agenzia, tutte le competenze frazionate in tema di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro già assegnate ai Ministeri del lavoro e delle politiche sociali, della salute, dello sviluppo economico, della difesa per la parte di competenza sulle funzioni delle Capitanerie di porto in merito alla navigazione civile, al Servizio sanitario nazionale, alle ARPA, alle Regioni direttamente o alle Province e pertanto dovrebbero essere ricondotte all’Agenzia anche i compiti svolti da organismi regionali o statali relativi a:

– porti e navigazione delle navi mercantili e da pesca;

– ferrovie e aeroporti;

– industrie estrattive a cielo aperto o sotterranee, torbiere;

– acque minerali e termali;

– radiazioni ionizzanti in ambito sanitario.

Si evidenzia come l’Agenzia così definita, esercitando i compiti già assegnati ad altri organi pubblici, statali o locali, riunirebbe in un unico soggetto una molteplicità di funzioni che attualmente sono sovrapponibili con quelle già presenti in alcune direzioni generali del Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Per tale ragione, il Ministero di riferimento non avrebbe più la necessità di contenere al suo interno la Direzione generale dell’attività ispettiva, le divisioni II e VI della Direzione generale delle relazioni industriali e dei rapporti di lavoro, similmente per gli altri Ministeri indicati. In termini generali, i principali compiti specifici dell’Agenzia, relativamente agli aspetti della salute e sicurezza dei lavoratori, sono ben delineati negli articoli 5, 6 e 7 del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81.

Questa sarebbe una vera riforma di una parte della pubblica amministrazione che consentirebbe di affrontare in modo decisivo ed organico i 2’282’000 tra malattie professionali e ad esse assimilate degli ultimi 12 mesi (di cui tra i 700 e 900 causano la morte – dato sottostimato) rispetto ai “soli” 714’000 infortuni dello stesso periodo, di cui 833 mortali (INAIL – ultimo rapporto). Nel nostro Paese, una stima prudenziale del 4% di tutte le morti per neoplasie, porterebbe a quantificare in 6’400 l’anno quelle di origine lavorativa (Ultimo Piano sanitario nazionale).

Massimo Peca

NB: Ai sensi della circolare del MLPS del 18 marzo 2004, le considerazioni contenute nel presente scritto sono frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non hanno in alcun modo carattere impegnativo per l’Amministrazione di appartenenza

Link diretto all’articolo integrale di PuntoSicuro

 


 

 

Jobs Act: le modifiche in materia di ispezioni e formazione
Il Jobs Act e i decreti attuativi introducono varie novità: dall’Agenzia Unica per le ispezioni alla possibile fine dell’obbligo di formazione per i lavoratori demansionati. Ne parliamo in un’intervista con Sebastiano Calleri, responsabile sicurezza Cgil.

 

(…)

Altri due punti che è necessario chiarire in merito al Jobs Act sono relativi alla legge-delega sulla normativa in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro di cui, ad oggi, si sa poco o nulla e all’ Agenzia unica delle ispezioni del lavoro a cui si fa cenno nel Jobs Act approvato a dicembre e a cui sarebbe dedicato un decreto attuativo che è ancora in fase di definitiva formulazione.

(…)

Credo che poi nel provvedimento già approvato a dicembre ci fosse già il riferimento ad un Agenzia Unica per le ispezioni…

Sebastiano Calleri: C’è una delega del Jobs Act dedicata espressamente a questo. Doveva andare in Consiglio dei Ministri il 20 febbraio. Non ci è andata.

Noi abbiamo accolto positivamente questa cosa perché la bozza di decreto rispetto all’Agenzia Unica non ci piaceva affatto e non ci piaceva per due motivi.

Uno perché è una delega come al solito senza alcuna risorsa, cioè a invarianza della finanza pubblica. E’ una riorganizzazione basata sul risparmio economico nella quale si prevede l’abolizione, per esempio, delle Direzioni Territoriali del Ministero del lavoro e anche di quelle interregionali nell’ottica della razionalizzazione, ma in realtà di un accorpamento e di un taglio di fondi. Non si dice poi nulla di quello che l’Agenzia farà.

Vi dico solo una chicca che era contenuta nella Relazione Illustrativa del provvedimento: c’è l’ispettore, fa il suo lavoro sul territorio e quindi non ha bisogno di un ufficio per tutta la settimana, e poi torna una volta a settimana a scaricare le pratiche all’interno della struttura. Questo è un modo di vedere le cose che non ci soddisfa. Primo perché in realtà le professionalità presenti all’interno dei servizi ispettivi del Ministero del Lavoro (…) sono professionalità multiformi che hanno bisogno di formazione (…) e soprattutto hanno bisogno di mezzi (…).

Crediamo che anche questa sia un’operazione da fare con molta attenzione e molta cautela. Noi non siamo in toto contrari all’Agenzia e alla sua istituzione. Però si deve fare con un criterio di positività di tutti, sia per i lavoratori che ci lavorano dentro e in seconda battuta per i lavoratori che devono essere salvaguardati da questa Agenzia. Non possiamo abbassare né il livello, né il numero delle ispezioni. (…) In realtà le ispezioni sono poche su tutto il territorio nazionale e non si raggiungono dei livelli ottimali.

E poi c’è il problema del raccordo, del coordinamento con i servizi ispettivi delle Asl sotto il Ministero della Sanità. Questa è una grossa querelle che sappiamo che parte dall’ articolo 117 della Costituzione, dalla volontà di cambiarlo e da tutto quello che c’è sulle Regioni. Ha senso fare un’Agenzia che poi non integra in qualche modo anche le attività di vigilanza delle Regioni? (…).

 

Link diretto all’articolo integrale di PuntoSicuro